Pistoia Blues - 11/07/2008

Scritto da Avalon il 15/Jul/2008 alle 00:10

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L’organizzazione

La location del festival è la piazza del Duomo.
Come ogni buona cittadina toscana, il centro è ricco di palazzi medievali e rinascimentali. Il palco è già montato (alcuni giorni prima aveva già ospitato i Jethro Tull) e fervono i preparativi di roadies e tecnici.
Sul lato opposto della piazza è montata una tribuna che però mi sembra troppo lontana dal palco (considerando che non sono previsti maxi-schermi).

Sul lato destro del palco c’è un’altra tribuna, sicuramente più vicina, ma la cui visuale è limitata dalla struttura stessa del palco. Morale: meno male che abbiamo preso i biglietti per stare in piazza.
Il ritiro dei biglietti comprati online procede più lentamente della fila per chi li acquista in loco, per di più il concerto era tutt’altro che sold-out. Morale: 4 euro di prevendita regalati.
Verso le 18 alcuni simpatici nerboruti invitano la gente a uscire dalla piazza e sistemano delle transenne nelle vie di accesso. Alle 19 si comincia a entrare e riusciamo a conquistare una postazione centrale in seconda fila.
 

Il concerto

A precedere il main event, un quarto d’ora a testa per tre band italiane vincitrici di un concorso annesso al Pistoia Blues Festival e un gruppo annunciato dalla speaker biondina (che a ogni sua apparizione veniva accolta da cori da stadio) come band anglo-olandese che ha proposto un paio di pezzi vergognosi.
Mi chiedo come abbiano fatto a salire su quel palco ‘sti cani morti.
Il bassista doveva cercare le note, le coriste sembrava avessero visto per la prima volta un microfono e quello con la Epiphone LP in mano (definirlo chitarrista è un insulto a tutta la categoria) ha provato a fare un barrè ma è tornato subito a più rassicuranti accordi con un solo dito.
Mai visto una roba del genere.

Ma veniamo ai big.
Il primo a esibirsi è Watermelon Slim, reduce del Vietnam cresciuto in North Carolina.
A salire sul palco è un sessantenne in completo gessato color salmone con più armoniche in tasca che denti in bocca.
Infatti passa alcuni minuti a sistemare sul piano, su cui giace il suo dobro square neck, una dozzina abbondante di armoniche disponendole con cura secondo un ordine prestabilito noto solo a lui.

Parte lo show e il buon Slim si dimostra subito un vero animale da palco. Un istrione che gioca con il pubblico interpretando sia i brani alla slide che quelli con l’armonica con grande carica (notevoli i passaggi in cui arrivava alla nota più alta dell’armonica e prontamente la cambiava con una di un tono superiore per proseguire la scala).
La band è formata da tre elementi che senza virtuosismi fanno cose semplici ma con ottimo gusto. Promossi a pieni voti.
Per gli amanti delle strumentazioni gli ampli usati erano un Bassman per l’armonica e Twin Super Reverb per le chitarre.

Dopo un’oretta circa di concerto seguono gli Hot Tuna.
Si presentano come trio acustico con Jorma Kaukonen alla chitarra (Gibson J-35, credo), Jack Casady al basso (Epiphone signature) e Barry Mitterhoff al mandolino (in un brano ha sfoggiato una chitarra tenore con P90).
Performance di ottimo livello anche se un po’ fuori luogo nel contesto della serata nonostante l’apprezzabile scelta di eseguire i brani più blueseggianti del loro repertorio.
Comunque bravi (ottimo il mandolinista), professionali e simpatici. Promossi.

Alle 10 circa inizia la performance di Johnny Winter.
Sul palco si presentano in tre: uno spilungone con strato, un bassista e un batterista.
Si lanciano in un bluesaccio ottimamente eseguito, al termine del quale annunciano l’ingresso del texano albino.
L’apparizione è abbastanza shockante. Il buon vecchio Johnny sembra lo spettro di se stesso. Pantaloni, t-shirt e cappellaccio neri che contrastano con il candore delle esili braccia e della chioma fluente.
La schiena è curva e credo che la vista lo stia abbandonando quasi del tutto dato che devono indicargli la sedia posta al centro del palco e che raggiunge a tentoni.

Ma a sorpresa la voce risulta ancora buona e le mani sanno ancora dove posarsi.
A ogni bending ti chiedi se si spezzeranno prima le corde o le dita, ma in realtà Johnny porta avanti un’ora e mezza di concerto senza concedersi pause o cali di energia, sorretto ottimamente dall’immenso lavoro dell’eccellente bassista. Per la cronaca suona una chitarra custom senza paletta e con il body molto piccolo (scelta forse per ragioni di peso) in una testata Music Man.
Il suono per i miei gusti è un po’ troppo effettato ma la botta non manca.

Piccola chicca nel finale. Noto un po’ di movimento nel backstage e infatti scorgo Dickey Betts fra le quinte.
Intanto sul palco, mentre Johnny suona, arriva un carrello con due Marshall.
Finito il brano entra in scena Dickey con la sua fida LP Goldtop per unirsi a Johnny in “It’s All Over Now”.
Ancora un paio di pezzi per Johnny che imbraccia la sua Firebird (altro che relic!) e via di slide per chiudere con “Highway 61”.
In tre sembravano un’orchestra. Promossi.

A chiudere la serata Dickey Betts and The Great Southern che attaccano verso le 22.30.
L’allestimento del palco richiede qualche minuto, visto che arrivano due set di batteria più uno di percussioni (non utilizzato), un trespolo con un B3 e quattro testate JCM900 con relativa cassa 4x12.
La band è composta da due batteristi, un bassista, un organista/cantante, il figlio di Dickey alla chitarra LP (ha pure cantato un pezzo suo, abbastanza scarso) e un altro chitarrista con 335 che eseguiva le parti slide (bravo, ma il buon Duane era un’altra cosa).

L’attacco è subito da infarto: parte la slide di “Statesboro Blues” e la voce (buona) arriva dal lato dell’organo. Per un attimo mi sono sentito al Fillmore.

Con mio sommo piacere i brani degli Allman Brothers non mancano. “One Way Out”, “Blue Sky”, “Seven Turns”, “In Memory of Elisabeth Reed” (la cui durata non riesce a superare i venti minuti a causa di un salto di corda sulla 335 che interrompe anzitempo l’ennesimo assolo, peccato).

E per finire, ciliegina sulla torta, l’enorme “Rambling Man”.
Ovviamente super-promossi (a essere ipercritici a volte tre chitarre erano fin troppe, soprattutto perché il figlio di Dickey ha suonato sempre lo stesso assolo, però bene devo ammettere).

Il mio amico ha pure la fortuna di vedersi lanciare addosso il plettro dal Dickey in persona (adesso cerchiamo di trovare una LP del ’57 e proviamo a ricreare il voodoo).
È l’una passata, il sipario si chiude. C’è ancora tempo per un panino con la porchetta e una birra prima di andare a letto (vista la postazione favorevole non ci siamo mossi da sotto il palco né per bere, mangiare, pisciare o altro per 6 ore!).
Al mattino dopo ripartiamo, ai Deep Purple del sabato e Lenny Kravitz della domenica abbiamo preferito un weekend al mare con le fidanzate.

Il pubblico era molto eterogeneo e si andava da signori coetanei di quelli presenti sul palco a ragazzetti capitati lì per caso (uno mi ha chiesto: “Chi suona adesso?” e io “Dickey Betts, chitarrista fondatore degli Allman Brothers”, “Ah! e chi era quello col cappello che ha suonato con Johnny Winter?”, “Appunto! Dickey Betts, quello che sta per suonare”).
Io sono sempre andato ai concerti per ascoltare la musica ma posso capire che un festival in piazza invogli a fare un po’ di casino... ma come si fa a pogare con gli Hot Tuna? (sono appena negli –enta e già ragiono come mio nonno…).

Avalon