appunti di viaggio pt. 2

Pechino.

Rispetto ad Hefei direi che siamo agli opposti, nel bene e nel male.
C’è di che gironzolare, grazie anche ad una metropolitana che funziona bene. Anche se per prenderla bisogna passare ai raggi x la propria sacca, manco fossimo all’aeroporto.
Stesso controllo per accedere a piazza Tienanmen, che al di là del triste ricordo storico, impressiona per la sua imponenza, pur se limitata dai maxischermi (e quando dico “maxi” parlo di un paio di pannelli lunghi 20 metri e alti 3) che alzano una specie di barriera mentre si guarda il fondo della piazza.
E i maxischermi proiettano immagini delle olimpiadi, anche se è stato ormai più di un anno fa, segno che per loro non è stata una singola edizione di una manifestazione quadriennale, bensì qualcosa di cui probabilmente parleranno per 400 anni. O forse no, l’hanno aspettata per 400 anni ma verrà presto inghiottita dall’evoluzione, verrà inghiottita da un neon più forte.
C’è la città proibita visitando la quale si entra in contatto con un po’ della cultura cinese, col susseguirsi delle dinastie, con un’abilità nella realizzazione di decorazioni di giada e oro degna di nota.
E c’è l’immagine di Mao all’ingresso. La guida dice: “i cinesi non amano parlare di politica, è bene adeguarsi a questa usanza”. Eseguo.
C’è la grande muraglia a un’oretta di macchina, un’autentica icona a portata di gita dalla capitale.
E però arrivi alla grande muraglia e oltre alla grande muraglia umana (a quanto pare i cinesi apprezzano la gita fuori porta, forse perché è sabato, forse perché è una bellissima giornata) trovi Starbucks. Starbucks? Ma questa non è Manhattan, questa è un opera vecchia millenni e lunga migliaia di chilometri, che c’entra Starbucks (e pure Kentucky fried chicken, diciamola tutta) qui?

Ci sono quartieri antichi che vengono abbattuti per lasciare il passo ai grattacieli, al moderno di cui vanno orgogliosi mentre ti mostrano un pacchetto di cartoline lucide e patinate piene istantanee al neon mentre io cerco, con scarsi risultati, qualcosa che mi riporti più indietro.
Ci sono i tassinari o taxi-driver che sembra non abbiano niente a che spartire con quelli di Hefei. Questi ultimi ti facevano pagare il giusto e si offendevano se gli lasciavi il resto per mancia, i pechinesi cercano di fregarti in continuazione. E a parte le corse in taxi ci sono le finte guide turistiche, i finti artisti, che armati di un buon inglese provano ad attirarti nella loro trappola.

E poi c’è la povertà che riesci a scorgere quando metti piede nella strada giusta, la prima a sinistra dopo la città proibita, la parallela alla via pedonale dei megacentri commerciali.
Alla fine la sensazione che mi pervade maggiormente è che questo paese, aprendosi in modo repentino all’esterno dopo secoli di repressione, stia finendo per copiare i modelli sbagliati.

E che se da turisti si vuole vedere qualcosa di più legato alla tradizione autentica bisogna cercare altrove.