Andrea Braido Trio “Plays Hendrix Music”

Scritto da brunoritchie il 10/Nov/2009 alle 03:20

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Auguro una buona lettura a tutti, sperando di non rimescolare la solita aria fritta sul “fenomeno Hendrix”, poiché il mio unico proposito è di rendere un giusto omaggio a validi musicisti di ieri e di oggi. Devo però precisare che, quando morì Jimi Hendrix, ero giovanissimo: non ero quindi in grado di comprendere il grande vuoto che avrebbe lasciato e ciò che rappresentava per un' intera generazione di ventenni nati poco prima di me.

Solo venticinque anni dopo, in età ormai matura, ho avuto modo di documentarmi leggendo articoli e recensioni su giornali specialistici e riviste musicali ed ho ascoltato più attentamente quasi tutti i suoi dischi. 

Un po’ di storia

Ma chi era James Marshall Hendrix ? Le biografie ufficiali lo descrivono come un comune ragazzo afro-americano, nato il 27 novembre 1942 a Seattle, dotato di un carattere timido ed introverso che, quando imbracciava una chitarra in pubblico, si trasformava in un autentico fenomeno della natura.

Istintivo, creativo, carico di intuito e di una non comune capacità di improvvisazione, sviluppò la sua tecnica totalmente da auto-didatta.

Era in grado di riprodurre una infinita gamma di suoni e di effetti sonori, suonando la propria chitarra con il plettro, le dita, il gomito, l’asta di un microfono, il bordo di un amplificatore e, addirittura, con i denti.

Maestro indiscusso nell’uso del cry-baby e dell’effetto larsen, in sala di registrazione sperimentava sonorità ed effetti di ogni tipo, arrivando addirittura ad utilizzare i nastri di registrazione riavvolti al contrario per ottenere effetti originali ed innovativi.

L’energia e il talento musicale di cui era dotato si contrapponeva, purtroppo, alle sue intime fragilità esistenziali; a causa di questo suo dissidio interiore, finì con l’abbandonarsi a un vita completamente sregolata e iniziò a fare un uso sfrenato di alcool e sostanze psicotrope.

Si circondò di falsi amici e di oscuri ed inutili personaggi che gli ronzavano intorno solamente per curare i propri interessi personali: tutta gente cinica, avida e malvagia che sfruttava la scia della sua notorietà per ricavarne guadagni ed opportunità di ogni tipo.

Le conseguenti frustrazioni di questo andazzo lo portarono ben presto alla paranoia, all’auto-distruzione e infine alla morte.

Lo sciacallaggio perpetrato ai suoi danni continuò anche dopo la sua scomparsa: ex-manager ed ex-produttori si assicurarono, per poche migliaia di dollari, i diritti d’autore della sua produzione, facendo autentico scempio della sua memoria e della sua arte, attraverso la pubblicazione di una miriade di produzioni postume di scarsa e alquanto discutibile qualità.

Per concludere, Jimi è stato un essere umano decisamente gracile ed infelice che ha avuto la sfortuna di condurre la propria breve esistenza in un clima di depressione e di totale solitudine interiore.

La mia avventura

Andrea Braido Trio Plays Hendrix Music. In questo caso, poi, posso dire che questo disco l’ho proprio visto nascere e potrei dire che: “quella volta c’ero anche io”!

È una sera qualunque, del mese che non mi ricordo più, dell’anno 2008. Sto facendo le prove con il mio Gruppo e sto suonando veramente male: volumi troppo alti, note sbagliate, stecche, imprecisioni e chi più ne ha più ne metta. Avvilito e arrabbiato con me stesso, spengo l’amplificatore, rimetto la chitarra nel fodero e mi congedo dagli amici, scusandomi per il  macello che ho combinato.

È proprio una di quelle volte che me ne torno a casa fermamente intenzionato ad appendere definitivamente la chitarra al chiodo. Fortunatamente, però, ci rifletto ... ci dormo sopra e, la volta successiva, sono pronto a rimettermi in pista completamente ritemprato e ricaricato.

La nostra sala prove si trova in un comprensorio musicale di oltre 22 locali. Data la promiscuità nella quale convivono decine di gruppi musicali, capita spesso che le sonorità si mischino fra loro, formando intrecci confusi e fastidiosi, ovvero suadenti ed accattivanti.

Nei momenti di ozio o di pausa, l’attività principale di ciascuno di noi consiste nello spiare quel che accade nell’orto del vicino, cercando un po’ di consolazione nelle disgrazie altrui… per dimenticarsi le proprie.

Come dicevo, la sera successiva, animato da un sano spirito di rivalsa, ritorno alle prove pienamente convinto di riuscire a superare le difficoltà della volta precedente. Però, c’è qualcosa nell’aria che non mi convince e, proprio in uno di quei rari istanti di silenzio assoluto, mi arriva all’orecchio una “scaricata” pazzesca di chitarra che sembra arrivare da un altro pianeta: “Vuoi vedere che è proprio lui!?!”.

Smetto di suonare e mi precipito nel locale attiguo dove ci trovo, oltre a Sandro (batterista) e ad Antonio (bassista/cantante), un omone appollaiato su di un minuscolo sgabello che sta letteralmente amoreggiando con una Paul Reed Smith: l’accarezza, la frusta, la brutalizza, l’abbraccia, la respinge, sembrano proprio due corpi e un’anima.

È proprio Andrea Braido che sta facendo le prove generali del concerto nel quale verrà registrato il CD che sto menzionando.
Non appena finito il brano, gli domandiamo: “Possiamo offrirti un caffè”?
“Grazie, ragazzi! E’ proprio quello che ci vuole”.

Ne approfittiamo, quindi, per scambiare con lui quattro chiacchiere e gli chiediamo qualche informazione a riguardo della sua strumentazione: “Ho suonato di tutto, ma mi piacciono molto le Les Paul, le 335, le SG e le GFJ Frudua. Da qualche anno sono diventato endorser dei marchi PRS e Marshall, di cui sono estremamente soddisfatto".

"La Paul Reed Smith custom 22 è una splendida chitarra che mi consente di splittare su una gamma infinita di suoni senza alcuna difficoltà. Utilizzo anche una stupenda Hollow Body II finitura McCarty, bellissima semiacustica, oltre che la McCarty solid body, la Singlecut Trem e la Custom 24 “El Braidus”, quest’ultima realizzata per me con il “Private Stock”  della casa madre".
 
"Per quanto riguarda i Marshall, in studio utilizzo un Vintage/Modern combo 50 watt, mentre da dal vivo trovo più appropriata la testata 100W collegata ad una cassa 1960 4x12. Il nuovo JVM Marshall mi impressiona per la sua qualità timbrica e per la sua enorme versatilità. Però, mi piace sempre ricordare agli amici che il suono di un chitarrista esce soprattutto dalle sue mani e dal suo cuore!".

Ad un certo punto della conversazione mi domanda a bruciapelo: “E così siete voi che suonate qui di fianco ? Bello !”
Non so come ha fatto a capire chi ero e mi veniva voglia di sprofondare sotto terra per la vergogna: “stavolta ce l’appendo veramente la chitarra a quel maledettissimo chiodo!”, per la brutta figura che ho fatto ieri sera.

Non trovando il coraggio di rispondergli in modo sensato, mi limito a biascicare un timido “Grazie”, sfoderando un ampio sorriso da cammello. Le prove riprendono ed io, incollate le scarpe al pavimento, non intendo allontanarmi per nessuna ragione al mondo perché non voglio perdere un solo istante di questa indimenticabile ed irripetibile opportunità.

Riascoltando l’Album

Il primo pezzo è Red House, il celebre blues che Hendrix ha eseguito in tutte le sue esibizioni live. Ho addirittura letto da qualche parte che, una volta, Noel Redding imbracciò una chitarra, gli affidò il basso e ne eseguì una sua personale ed inedita versione. Resta da capire come fece il celebre “mancino” a suonare uno strumento con le corde (per lui) rovesciate!
 
Il groove e la sana cattiveria che Andrea utilizza, già dalle prime battute, ci fa capire che le sue modalità di approccio sono più che adeguate.

La voce di Antonio Cascarano ha una timbrica baritonale, abbastanza vicina a quella di Hendrix, anche se l’imprinting non ha, ovviamente, la giusta connotazione di tipo “black”.

L’agilità e l’energia di Alessandro Napolitano sono di ottimo supporto al collettivo. La sua verve prevalentemente jazz/fusion, ormai profondamente radicata nel suo DNA, gli consente di accentare e contrappuntare i  passaggi della chitarra, esattamente come faceva il mitico Mitch Mitchell. 

Ritengo che la parte più bella di questa riedizione di “Red House” sia quella costruita su un tappeto di suoni molto puliti e stirati, carichi di riverbero e di delay.

L’originalità di Manic Depression consiste nel fatto di essere l’unico brano in tempo di ¾ che Hendrix ha composto.
In questa circostanza, Braido è molto bravo nell’alternare suoni sporchi, carichi di fuzz e di wha-wha, a timbriche estremamente pulite ed aggraziate.

L’assolo centrale non rispecchia fedelmente il copione originale, ma si sviluppa in una serie di fraseggi decisamente più complessi e sofisticati, scelti veramente con un ottimo gusto musicale.

Nella parte più vivace, invece, affiorano le somatizzazioni di almeno altri dodici mostri sacri della sei corde: Steve Morse, Jimi Page, Frank Zappa, Joe Satriani, Tony McAlpine, Steve Vai, Larry Carlton, Eric Johnson, Pat Metheny, John McLaughlin e cosi via.

In effetti, le influenze di Braido sono molteplici: jazz, rock, blues, classica, country ecc., talvolta singole, oppure tutte insieme, tanto da rendere difficile attribuirgli uno specifico stile musicale. Ma l’assolo finale è tutto leva e bending, proprio alla maniera del grande Jimi Hendrix … e tutto torna al suo posto.

 

 

La delicatezza e il sentimento della fine degli anni sessanta ci vengono proposti attraverso una versione di Wind cries Mary, decisamente ringiovanita e vezzaggiata con deliziosi arpeggi, arricchiti con degli effetti di rotazione di nuova generazione e con il cry baby.

Il suono della PRS, viceversa, si avvicina tantissimo a quello di una vecchia “ascia” d’epoca: sarà un caso oppure è solo questione di … manico? Pregevole è la ricostruzione dell’impianto melodico, riscritto in una chiave molto atipica ed originale.

Freedom è stato pubblicato in epoca postuma nell’Album “The cry of love”, che vedeva Mitch Mitchell alla batteria e Billy Cox al basso, oltre ai vocalist The Getto Fighters (“Freedom”), Buzzy Linhart al vibrafono (“Drifting”), Stevie Winwood & Chris Wood al vibrafono e Buddy Miles alla batteria (“Ezy Ryder”), Emeretta Marks vocalist (“In from the storm”) e Gers all’arpa (“My Friend”).

“Freedom, freedom / Give to me / That's what I need / Freedom, freedom / To live / Freedom, freedom / So I can give”.
 
L’attacco è perfettamente identico a quello originale, mentre l’assolo centrale è ricco di note nervose e di tapping, tutte cose che non hanno niente in comune con la tecnica un po’ animalesca e primordiale di Hendrix che, come ben sappiamo, usava al massimo due o tre dita.

Inoltre sfruttava tutte le potenzialità della sua chitarra suonandola nei modi più strani e disparati: strofinata sul di dietro e in mezzo alle gambe, masticata con i denti, calpestata con le scarpe, sfrugugliata con un bicchiere, pizzicata con il turacciolo di una bottiglia, picchiettata con le nocche sulla cassa, sulla paletta e sul retro del manico, ovvero cosparsa di alcool ed incendiata al termine di un vero e proprio rito satanico di profanazione.

 

 

La parte introduttiva di Little Wing non è la fedele sequenza di arpeggi che tutti noi conosciamo e che legittimamente vorremmo sentire. Nemmeno il suono della chitarra rispetta fedelmente le timbriche originali; in realtà, l’intero sviluppo melodico della canzone è stato ristrutturato e riproposto in chiave moderna.

Tuttavia, il progressivo passaggio dal blues, allo swing ed infine al jazz, scivola agevolmente nelle nostre orecchie, facendo materializzare il fantasma di Wes Montgomery, ovvero l’anima vivente di Pat Metheny. Manco a dirlo, Antonio e Sandro si trovano perfettamente a proprio agio, spaziando nello stile musicale che prediligono e nel quale riescono ad esprimersi compiutamente.

Il secondo assolo, maggiormente convenzionale e carico di fuzz, ricorda maggiormente le pirouettes strumentali di Joe Satriani durante un G3 Concert, piuttosto che le umane ed essenziali scale pentatoniche di cui Hendrix era assoluto padrone. Ma questo non ci deve sorprendere o scandalizzare, perché da Andrea Braido ci si deve aspettare di tutto, anche l’eventualità che, senza alcuna riserva fisica e mentale, si sieda alla batteria o che si metta al basso, oppure ancora che, nel bel mezzo di in un indiavolatissimo pezzo di musica rock, attacchi “Minor Swing” di Django Reihnardt, dopo aver imbracciato al volo una chitarra acustica.

In una intervista disse: "Sento di dover fare sempre delle cose diverse. Questo può essere disorientante, in una società in cui c’è sempre il bisogno di etichettare chi suona: io penso solo in termini di musica, senza pormi il problema del genere, ma di suonare esprimendo emozioni".

 

 

La versione di Foxy Lady è perfettamente fedele al modello originale, già a partire dall’inconfondibile bending introduttivo che esce dal punto più profondo del pavimento, sale e cresce e arriva fino alle stelle, per poi rimbalzarci addosso con il giusto mix di cattiveria e distorsione.


http://www.youtube.com/watch?v=T35_VQdCwXA&feature=related

La versione originale di All along the watchtower che è contenuta nell’album “Electric Ladyland” è veramente molto bella per l’eleganza degli arrangiamenti e per l’ottima qualità dei suoni della chitarra che, ancora oggi, affiorano limpidi e cristallini dalle stanche e consumate tracce del mio vinile.

Tutte le altre edizioni mi sembrano incomparabili e, con tutto il rispetto, anche quella di Braido non fa eccezione: scarna, frettolosa ed evanescente, mi colpisce unicamente per il bello spunto alla Hank B. Marvin degli Shadows che gli è venuto fuori nell’assolo centrale.

Purple Haze mi ricorda il curioso e divertente episodio che mi è capitato durante un successivo concerto estivo del Trio (con Mino Inglese alla batteria, in sostituzione di Alessandro, impegnato professionalmente in altro sito).

E’ noto che Andrea Braido suona la chitarra quasi esclusivamente con le dita della mano destra. Mi sembrò quindi un po’ strano che, ad un certo punto, domandasse al pubblico presente: “C’è per caso un chitarrista che mi può prestare un plettro, magari un Ernie Ball Medium”? 

Corsi a portarglielo, del tutto ignaro di quale brutta fine avrebbe fatto. Adesso non potrei descrivere il gran casino che quella volta ha combinato, ma riascoltando il CD si riesce a rendersi conto dello stress e delle torture alle quali è stato sottoposto il mio povero plettro che gli è servito solamente per supportare i rumori ed effetti sonori inseriti al centro di “Purple Haze”, proprio alla maniera di Hendrix.

Nel mucchio di suoni e di rumori che si sentono nel disco, c’è anche il noto giochetto di Steve Morse della c.d. radio a valvole (cfr. Preludio a “Smoke On the water” da “Total Abandon” 1999) che gli amanti dei Deep Purple conoscono molto bene:

 

 

Alla fine di quel concerto mi avvicinai per salutarlo e per esternargli le mie emozioni e le mie congratulazioni. Egli volle a tutti i costi restituirmi quel che rimaneva del plettro dicendomi: “Scusa, te l’ho un po’ distrutto…”  (che para-pendio!).  

Il malcapitato oggetto è stato ospite di questo mio recente blog su Laster (vedi foto)

Altro cavallo di battaglia non fotocopiato è Hey Joe che, nella prima frazione viene eseguito in modo speculare, utilizzando suoni alternatamente puliti e crunch, molto simili a quelli di una Stratocaster Pre-CBS con il selettore posizionato in prima posizione (lato manico).

Però, dopo il primo inciso, si ritorna a timbriche ed arpeggi più moderni ed elaborati, arricchiti da una folta schiera di note “armoniche”. In uno dei vari concerti tarantini, è stata addirittura inserita una variazione centrale in tempo di reggae. 

Anche Fire ci viene prospettato in versione riveduta e corretta, arricchito da un delizioso assolo di batteria.

Stone Free, a mio avviso oggettivamente piuttosto brutta, viene invece valorizzata da una geniale divagazione, in stile latino-americano, ricamata sul tema principale di “Tequila”, celebre motivo del 1958 scritta da C. Rio. Secondo me, l’originalità di questa trovata consiste unicamente nel fatto che è completamente fuori copione e che non c’entra assolutamente nulla con la musica di Jimi Hendrix.

Scusate, ma devo cambiare chitarra, se no quest’altra si offende!”  disse, alla fine del predetto concerto estivo. “Le chitarre bisogna suonarle sempre, altrimenti si avviliscono e si rovinano”  ed attacca il celeberrimo ed immancabile Voodoo Chile, l’interminabile session contenuta e separata in due momenti nel mitico e già citato album “Electric Ladyland”.

La parte più coinvolgente è quella suonata quasi in silenzio, programmata in modo da creare la giusta atmosfera per congedarsi dal pubblico, durante la quale affiorano sonorità orientali alla Ritchie Blackmore (cfr. “Mistreated” versione live di “Made in Europe”), ovvero esperimenti di tipo elettronico come quelli di Jimi Page in “Whole Lotta Love”, durante il mitico doppio concerto al Madison Square Garden di New York:

 

Epilogo

Peccato che, durante l’evento estivo di cui sopra, sia mancata l’elettricità per ben quattro volte. Alla fine, mentre Andrea stava mettendo a posto le sue cose, ebbi modo di domandargli: “Non hai avuto paura che saltasse il finale dell’amplificatore con tutte quelle botte di corrente che ha preso”?

E lui, con il suo inconfondibile e simpaticissimo accento tridentino replicò: “Ma no, il Marsall (senza la acca) è robusto ! Non si rompe mica !”.

Andrea Braido Website

Nel ringraziare  tutti gli amici Lasteriani per la cortese e paziente attenzione prestatami, termino questa lunga chiacchierata augurandomi di non aver annoiato troppo e colgo l’occasione per porgere un sincero ed affettuoso abbraccio a tutti Voi.

Ciao.
Bruno